… e non si tratta più solo di un sogno ma di una realtà consolidata e tangibile, se siamo giunti all’edizione numero 30 di un festival culturale – che ha certo il jazz come base essenziale, ma che ha allargato via via i suoi interessi a cinema, arte, spettacolo – diventato simbolo stesso di riscatto e possibilità di un territorio aspro e svantaggiato (almeno rispetto al glamour delle spiagge vicine), come quello di Berchidda e paesi limitrofi.
Era il 1988 :
bastano una vecchia Lettera 22, un foglio di carta semplice e molta immaginazione. «Il nostro intento», scriveva, «è offrire delle proposte musicali che normalmente non si trovano nei circuiti di programmazione, in modo da giustificare la scelta di Berchidda in principio come luogo dove ’succede’ qualcosa». Chiede un contributo minimo, una manciata di milioni di lire; non si arriva a dieci. La partenza è così così: qualche centinaio di coraggiosi, inguaribili jazzofili e molti più mugugni in paese. Non poteva essere altrimenti. «Gli artisti hanno capito da subito lo spirito diverso del nostro festival, la gente si è abituata pian piano».
Time in Jazz è soprattutto l’atmosfera, non i nomi che ci vanno, per quanto importanti. È i musicisti blasonati che si ritrovano a suonare nel nulla, un pianoforte tra riarsi solchi di vigna, un’alba passata a interrogarsi se gli spettatori verranno e trovarsi poi 1.200 persone sull’erba pronte a commuoversi. «Berchidda è il suono improvviso, e del tutto coerente con il nostro progetto e la nostra filosofia, dei campanacci di un gregge che attraversa la strada a pochi metri da chi sta suonando; è le cicale che ti frastornano e allo stesso tempo ti accompagnano mentre un Antonello Salis suona sanguinante il piano sotto la canicola in una sperduta chiesetta romanica di campagna».
Paolo Fresu