Da almeno un decennio a questa parte stiamo assistendo a tensioni di tipo politico-sociale ed economico-finanziarie di respiro planetario di tale entità, che è facile dedurre, inevitabilmente, segneranno (e cambieranno) le vicende del nostro tempo. Siamo di fronte ad una congiuntura storica che porterà ad un cambiamento radicale e traumatico (appunto crisi come da etimologia latina crisis e guarda caso greca κρίσις) su più piani e a vari livelli, dello “Status Quo” mondiale.

In questo contesto, la vitalità europea, sembra essere espressa ormai solo dalla continua produzione di regole. Nel 2014 la Gazzetta Ufficiale dell’UE si sviluppava per 11.099 pagine, estese su 692 metri quadrati.

A quanto pare quindi, l’Europa intende reagire a questioni estremamente complesse come la situazione greca e i flussi migratori dell’area del Mediterraneo, solo per citare due esempi, presentandosi come un “non luogo” e un “non popolo” incapace di integrazione e di inclusiva accoglienza, dove regna per lo più il “no” della lettera e la sovrana podestà dei mercati finanziari.

Ci preme ricordare come nel 2002, ma anche nel 2010, l’Unione bloccò sul nascere la proposta (italiana e della Santa Sede) della “detax”, ovvero la destinazione ai paesi poveri dell’Africa, di una piccola quota parte dell’IVA, scorporata dai consumi interni europei e veicolata attraverso una rete di esercizi convenzionati. Questo nella tanto sbandierata logica, “dell’aiutarli a casa loro”.

Ma l’Europa è sempre stata questo?

No! Non era così al principio. In altri tempi, con altri valori e idee e, ci duole rilevarlo, con altri uomini e donne, lo sviluppo del progetto Europa poneva il suo centro sulla dignità della persona e dei popoli, e sullo spirito critico. Una capacità di pensiero, quest’ultima, posta a fondamento di tutta la cultura occidentale; la quale nasce, incontrovertibilmente dalla potente armonizzazione tra: la grandezza filosofico-matematica di Atene e l’eccellenza giuridico-ingegneristica ed anche economica (quest’ultima magistralmente emersa nel Medioevo e nel Rinascimento italiano) di Roma. Il tutto innestato e mediato dalla visione antropologica giudaico-cristiana (Gerusalemme). (Cfr. Atene, 28 aprile 1955: conferenza tenuta da Albert Camus sul tema: «Il futuro dell’Europa»).

Cosa è avvenuto dunque? In appena un quarto di secolo, un arco temporale così breve da essere compreso nella vita di quasi tutti noi, si sono “scatenati” in Europa alcuni fenomeni, ciascuno dei quali, da solo, è capace di produrre effetti rivoluzionari. Questi eventi, che in realtà sono di respiro mondiale, si sono verificati, da un punto di vista storico, praticamente insieme ed in concatenata sequenza; innescando una reazione di causa-effetto esplosiva.

Stiamo parlando della Globalizzazione, con le conseguenti politiche di allargamento, la moneta unica, la crisi economico-finanziaria globale. In questo imprevedibile crocevia storico, l’Europa si è trovata violentemente estratta dal caldo utero del vecchio MEC (Mercato Comune Europeo) e proiettata in un contesto dove le uniche regole esistenti, internazionalmente formalizzate e condivise, che sovraintendono ogni altra regola (de facto anche se non de iure) erano quelle di una economia “iper-finanziarizzata” trasformata in ideologia.

Incapace di una governance unitaria, fondata su una democrazia globale e solidale (caratteristiche costitutive della democrazia nell’impianto culturale di cui sopra), in grado di realizzare la tanto decantata “Economia Sociale di Mercato”,  il “progetto Europa” ha perso la sua radicale struttura identitaria. Ha reciso i legami con la tradizione, immergendosi totalmente nel gorgo di in una modernità iper-consumista fatta da diritti senza doveri. Ha rotto l’iniziale equilibrio tra nazioni e popoli, visti come pari, creando le basi per la costituzione di stati finanziariamente egemoni, su cui si è polarizzato, inevitabilmente e disfunzionalmente, il potere decisionale.

Non è stata dunque l’Europa ad entrare nella globalizzazione, ma è stata quest’ultima che ha fatto irruzione nel nostro continente, trovandolo impreparato e senza capacità di controllo. In questo scenario, l’Euro appare, desolatamente, una moneta dissociata da una qualsivoglia forma di sovranità nazionale o sovrannazionale. Una moneta senza governi in una Europa fatta di governi senza moneta; la nostra divisa ahinoi, mette in risalto come nulla prima d’ora, la reale sostanza degli Stati (ancora) divisi d’Europa.

Arriviamo infine alla crisi del 2007-2008, nella cui onda lunga, checché se ne dica, ancora ci troviamo. Un evento storico che ovviamente non era previsto dai trattati dell’Unione, costruiti sulla base del mantenimento di bilanciamenti, che sono il risultato di complessi algoritmi di matematica finanziaria planetaria. Emblematica in questo senso è la questione della Grecia.

La Grecia è la terra madre

La Grecia è la terra madre di quelle categorie culturali che, ancora oggi, sono centrali (in Occidente soprattutto ma non solo) per l’elaborazione della conoscenza, vista in tutte le sue forme, e che è stato fino ad oggi, processo fondamentale nell’evoluzione di tutte le democrazie avanzate specialmente quelle del Vecchio Continente. Una dimostrazione? Guardiamo le banconote che abbiamo nel nostro portafogli: possono essere state prodotte ovunque in Europa, ma su tutte leggerete «euro» scritto in greco!

Se volessimo dunque dare una collocazione temporale (e quindi causale) alla crisi greca, dovremmo inevitabilmente individuare che questa è sopraggiunta proprio con l’ingresso dell’Europa in Grecia, e non viceversa. Il crack dell’economia greca non pone le basi nei suoi – pur truccati – bilanci pubblici, ma piuttosto nei meccanismi della finanza privata europea e occidentale.

A partire dal 2003, in maniera pressoché incontrollata, un enorme flusso di capitali proveniente dalle principali banche europee (soprattutto tedesche e francesi) ha allegramente finanziato il debito greco, i consumi interni (piscine, auto, le più varie illusioni di benessere) nonché eventi di portata mondiale come le Olimpiadi del 2004.

C’è da dire che per quasi un decennio l’euforia finanziaria è stata bilaterale, dal lato dei debitori, ma anche da quello dei creditori che, sui loro crediti, incassavano ricchi interessi attivi. Si stima che i volumi di capitale arrivati in Grecia fino alla soglia della crisi (più o meno prima del 2008) ammontino a circa 300 Mld €, per poi scendere di oltre il 50% nel periodo post-crisi. È chiaro che anche in questo caso non è stata minimante considerata la possibilità, che l’economia reale greca, potesse ripagare una tale esposizione debitoria. Ma comunque non era questo l’importante! Ciò che più contava era mungere, il maggior valore di rendite finanziarie possibili nel più breve tempo.

Ad un certo punto, fatalmente, l’entità della crisi economico-finanziaria globale emerge in tutta la sua distruttiva potenza. Ovvero l’economia di un intero sistema paese, già iper-contratta, caratterizzata da una esportazione praticamente nulla (il turismo non è certo elemento di base nella bilancia commerciale delle economie industriali avanzate), incapace di ottemperare pienamente al prelievo fiscale e in più gravata da un sistema di welfare interno assolutamente squilibrato e incapace di autofinanziarsi. Non era più in grado di pagare i propri creditori. Ovvero coloro (le banche) che finanziando il debito sovrano greco, posto sul mercato internazionale, avevano permesso alla nazione ellenica e al suo popolo di condurre uno stile di vita ben oltre le proprie reali possibilità.

Dunque un volume così ingente di capitali, “aiuti”, immessi sul mercato finanziario greco hanno in realtà aiutato tutti, soprattutto le banche tedesche e francesi, tutti insomma, tranne che i Greci! Inutile dire, che questo è avvenuto, senza che si sia levata, da parte di nessuno degli attori coinvolti (UE – BCE – FMI – Governo e Banca Centrale della Grecia – ecc.), la benché minima voce di allarme.

A questo punto come non rilevare l’assurdità, di quanto compulsivamente la Troika ancora chiede alla Grecia: più privatizzazioni; più liberalizzazioni, un sistema pensionistico in grado di autofinanziarsi pena la distruzione dello stato sociale di Atene, e la disgregazione della coesione di un intero popolo.

Quello che è successo e sta succedendo nell’Ellade, ciò che in questi anni le è stato fatto, prima in termini di illusione poi di recessione, mina alle fondamenta il senso stesso dell’esistenza di un progetto europeo. Riguarda direttamente e pericolosamente ogni paese membro, ovviamente con particolare riferimento ai cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna).

La storia normalmente è sempre una buona maestra, e come lucidamente esprimeva il grande storico Hubert Jedin, essa è autoconoscenza e autocoscienza dell’uomo e dell’umanità intera. Sovente però, sono gli uomini che a volte, prima di ravvedersi – e si spera che lo facciano nelle prossime ore – si rivelano cattivi scolari.

L’Europa può tornare a sorridere!

L’Europa potrà avere un futuro di civiltà, degno pienamente di questo nome, solo se cesserà di centrare se stessa su schemi e regolamenti finanziari. Essa sarà davvero, il grande lascito delle generazioni dello scorso secolo, quelle che hanno fatto esperienza dei più grandi e devastanti conflitti della storia umana, solo se ritornerà ad accogliere nel suo seno, quel seme democratico e quell’intensità politica che sono state proprie del suo primigenio e vigoroso spirito culturale!

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