di Maurizio Grandi ed Erica Poli

Premettiamolo subito.

La lettura di questo articolo è adatta solo ad un pubblico adulto.

Adulto nel senso di discernere la differenza tra una riflessione antropologica e una propaganda politica, tra lo sguardo curioso che esplora il senso della storia e quello superficiale che ammicca a qualche cimelio, simpatizzando per giunta con l’anacronismo.

Perché la citazione che ha ispirato il titolo dell’articolo, se non fosse per la premessa, facilmente si presterebbe all’ottuso commento di chi, forse, ha talmente paura della nostra storia da volerne cancellare pezzi interi e pensare che la censura del ricordo sia la strada migliore per essere politicamente corretti.

Invece, in un’ottica antropologica, ogni pezzo della storia ha un senso perché ci aiuta a spiegare quel che siamo diventati.

Nella fattispecie, quel che è diventato il femminile oggi.

Dov’è andato il potere femminile? Non il potere delle donne mascolinizzate, quello vero, decantato oltretutto da anni e anni dalla cultura spiritualista dell’era dell’Acquario.

Il potere femminile: un mix strano e alquanto potente di passione, coraggio, bellezza e tenerezza, messi assieme, sebbene apparentemente opposti.

Non si trova quasi più. Donne fatte a pezzi, in tutti i sensi, fatte a pezzi dalla violenza, fatte a pezzi dalla chirurgia estetica che quanto a violenza non è da meno, fatte a pezzi dall’immagine, fatte a pezzi dalla cultura e anche dal mondo del lavoro.

Un pezzo per la donna, un pezzo per la figlia, uno per la madre, un altro per l’amante, uno ancora per la professionista….

Ma i pezzi non fanno l’intero.

Intero è integro.

Integro è coraggio di essere se stesse.

Integro è per scelta.

E allora ecco la provocazione: tirare fuori dal rigattiere dei cimeli l’inno del 1944, dell’allievo ufficiale diciannovenne Mario Castellacci con le sue strofe cantate dagli uomini a cui rispondevano le donne, contrapponendo l’immagine di un femminile con il sangue nelle vene ad uno in cui circolasse solo acqua e altre metafore di, forse, facile presa sull’immaginario dei giovani di quel tempo.

Quel che veniva esaltato, al di là, repetita iuvant, dell’orientamento politico, era il coraggio degli ideali, dai quali essere uniti e per i quali lottare magari anche fino alla morte. E , come sempre, da sempre, le donne erano il perno più profondo di questo coraggio, la leva più intima di una intera società, della sua forza, impavida, anche di fronte al rischio della vita stessa.

Donne affatto tiepide, per nulla fragili, donne fiere, donne potenti.

Anche la Morte, del resto, è una Signora, con cui fare all’amore.

È sempre stato così per il femminile autentico, nel passato recente come in quello antico.

Dall’altra parte delle barricate, Anita Garibaldi fa capolino.

Nell’antichità, Teodora, fu il perno del coraggio di Giustiniano: fu lei a farlo desistere dalla fuga di fronte alla rivolta, fu lei a reggerne l’impero, a spingerlo a combattere anche al costo della morte perché «… Il trono è un glorioso sepolcro e la porpora è il miglior sudario».

Fu lei a far riconoscere a Giustiniano la sua vera natura, a farlo vibrare all’ottava superiore del suo essere imperatore, uno per il quale nessuna fuga sarebbe una salvezza.

E la riflessione sull’oggi è amara: possibile che il coraggio femminile crescesse meglio sotto l’impero e persino nella dittatura? Che ne è rimasto oggi?

Del resto la riflessione è stata estesa alla poesia, all’arte e alla letteratura da illustri critici: è risaputo che la grande arte fiorisce in due modi, nel Rinascimento protetta dal mecenatismo oppure come segreta ribellione sotto il peso dei regimi.

Possibile che la sognata e sacrosanta democrazia spazzi via tutto questo, ponendo all’anima le catene ben più pesanti della tiepida banalità?

Possibile che la tanto rivendicata omologazione dei sessi tramortisca il potere femminile?

Possibile che per gli esseri umani ci voglia sempre e soltanto un regime contro cui combattere, un protettore da cui dipendere, una rivolta da sanare, per tirare fuori il meglio di sé?

Forse sì, pare che il dolore sia un maestro più efficace della bellezza.

Infatti, se oggi dovessimo cercare un’icona di bellezza e di coraggio, la dovremmo andare a scovare magari nelle donne curde, che combattono e sopravvivono e continuano ad essere feconde.

Eppure nella cosmogonia di tutti i popoli esiste un prima, un eden, un’epoca aurea, dove umano e divino erano cosa sola.

In effetti Teodora, la scandalosa, fu prostituta, imperatrice e mistica.

Fu, dunque, Donna.

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