E l’Europa dov’è?
La risposta è lapidaria: in una posizione non competitiva.
In particolare nella gestione delle materie prime, mentre qualche voce in capitolo riuscirà ancora a pronunciarla nei prodotti trasformati.
Però per un ristretto numero di persone con redditi elevati e per quei Paesi in maggiore espansione che hanno maggior valore spendibile.

Sui grandi flussi di materie prime l’Europa potrebbe essere competitiva solo nei lattiero caseari.
E l’Italia – in questo comparto, oltre che nei trasformati – ha molte carte da giocare. Sulle possibilità di crescita internazionale dell’agroalimentare italiano, Luigi Scordamaglia ha così commentato nei giorni scorsi partecipando al salone Sial di Parigi: «L’appuntamento di Expo 2015 – ha detto Scordamaglia – ha consacrato la filiera agroalimentare italiana come modello unico al mondo in grado di soddisfare la crescente domanda di prodotti alimentari, non solo di elevata qualità ma anche sostenibili da un punto di vista ambientale.
Il nostro obiettivo – aggiunge – non è solo quello di vendere prodotti, ma anche di raccontare la storia, i valori, la sapienza antica, la tradizione e nel contempo la costante innovazione e la tecnologia avanzata che stanno dietro tali prodotti. Imitare una bandiera o un nome italiano è fin troppo semplice: riprodurre però il vero valore sapienza tradizione che sono dietro le nostre eccellenze al di fuori del nostro Paese è impossibile».

L’EUROPA Potrà avere un ruolo primario nei prodotti trasformati, non nelle materie prime, sulle quali sarà competitiva solo sul lattiero-caseario.

«Nel 2050 il mondo necessiterà del 60% di cibo in più, mentre la riduzione della povertà – osserva la Caritas – sembra seguire un processo più lento». Il focus del rapporto sono i piccoli agricoltori, da cui viene prodotta tuttora la maggior parte delle derrate alimentari e che tuttavia sono proprietari della terra che coltivano solo in un caso su cinque. Ingiustizie perpetuate ancora oggi con le violenze, com’è nel caso del popolo Garifuna in Honduras, dei Quechua in Amazzonia, dei Kutia in India.

La tesi è che «la tutela dei diritti e lo sviluppo rurale vanno di pari passo» e che il depauperamento violento delle popolazioni rurali sia all’origine degli squilibri demografici di questo periodo storico: senza andare molto lontano, il 34% della popolazione che vive di agricoltura e di allevamento tra Medioriente, Nordafrica ed Europa dell’Est si troveranno a fare i conti nei prossimi 35 anni con un incremento della domanda di cibo e una parallela riduzione delle fonti idriche ed energetiche, che indurranno da un lato uno spostamento di grandi masse e dall’altro una concentrazione dei residenti nelle aree urbane, indebolendo ulteriormente il tessuto produttivo dell’agricoltura.

Il rapporto non si sofferma tanto sui trend globali, dalla volatilità dei mercati al fallimento del multilateralismo, ma insiste sui segnali dello sgretolamento in atto, come «l’incremento di episodi di espropri forzati, violenze e omicidi» che preludono all’abbandono delle campagne.

2,5 milioni sono i redditi delle persone nel mondo che dipendono ancora direttamente da piccole aziende agricole che producono l’80% del cibo che viene consumato annualmente in tutta l’Asia e nelle nazioni dell’Africa sub-sahariana.
Avvenire 12 gennaio 2017

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