Che la canzone napoletana abbia avuto una sorte fortunata è opinione condivisa. Quali ne siano state le premesse è ancora creativa occasione di confronto.
Il letterato e poeta Pietro Bembo, nel 1525 pubblicò ‘Prose della volgar lingua’, dove gettava il seme che avrebbe, da allora e nei secoli successivi, dato vita ad un nuovo modo di concepire la parola, riconoscendole una sua essenza sonora al di là del suo significato intrinseco. Una parola, con un determinato suono quindi, non poteva essere sostituita con un suo sinonimo, senza che questa diversa sonorità non avesse modificato la ritmica e la melodia del verso. Certo, il Bembo si muove nell’area culturale veneta-toscana, ma soprattutto toscana, visto che il suo riferimento principe è il Petrarca. Si potrà allora obiettare: cosa centra il Bembo con Napoli e con la cultura partenopea? La risposta sta in due parole che il letterato fa incontrare per esprimere un nuovo concetto, quello di sonorità espressiva. Due parole sufficienti a contattare il mondo musicale napoletano.
Non ci sono prove dell’influenza del pensiero del Bembo sulla futura e felice sorte della canzone napoletana. Ma, il seme, una volta attecchito, ha la facoltà di scegliere un suo percorso in completa autonomia. E il seme attecchisce dove c’è un terreno adatto, favorevole alla sua crescita. In questo caso la terra è quella che ha dato i natali alla cosiddetta Scuola siciliana (prima metà del XIII sec.) presso la corte di Federico II di Svevia, promotore e interprete in prima persona di questo “nuovo stile” attraverso il quale si dà dignità all’uso del “volgare” nell’esercizio poetico. Un atto notarile molto antecedente al regno di Federico II, “Placito Capuano” (960, Archivio dell’Abbazia di Montecassino), riportato in tutti i testi di storia della letteratura italiana, documenta una “parlata” dialettale campana: “Sao ke kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti”. (So che quelle terre, con quei confini che sono qui segnati, le possedette per trent’anni il monastero di San Benedetto). Si tratta di una testimonianza riportata così come espressa a voce dal testimone, in occasione di una controversia sul possesso di alcune terre occupate dall’Abbazia di Montecassino. Il “Placito Capuano” è considerato l’atto di nascita del volgare italiano, più esattamente di un volgare italiano, non nel senso che questo documento dia origine a qualcosa, ma perché testimonia un processo già in atto da tempo”. (GDE UTET –Letteratura Italiana, Storia e Caratteri, XI -Ed. 1988 TO).
Quindi, in un cammino parallelo, stavano viaggiando il latino (in uso nelle cancellerie per molto tempo ancora) e il volgare, in uso nel quotidiano dal popolo che si esprimeva nel dialetto proprio di appartenenza all’area del regno in cui viveva e si identificava. Nel ‘200, infatti, non esisteva una lingua italiana, ma tanti “volgari” quanti erano i centri culturali più importanti con una tradizione scrittoria, sia letteraria che documentaria, che subiva di certo l’influsso dell’idioma locale. I poeti, per lo più nobili, che vivevano attorno alla corte di Federico II (seconda metà del XIII sec.), anche se non siciliani, usavano un linguaggio aulico in volgare, farcito qualche volta da espressioni latineggianti o provenzali.
I componimenti dei poeti appartenenti alla scuola siciliana sono documentati in un Manoscritto Vaticano che è stato compilato da un copista toscano il quale ha operato un riadattamento dal volgare siciliano a quello toscano. Un’operazione apparentemente legittima, ma che la dice lunga sul palleggio ‘Toscana –Sicilia’ per contendersi il primato della nascita della lingua italiana che non è nata da un giorno all’altro come un fungo, ma ha avuto il suo periodo evolutivo durato qualche secolo prima di potersi chiamare veramente “Lingua italiana”. Un tempo necessario, considerato che l’Italia ha raggiunto la sua unità geopolitica e culturale dopo molte peripezie e molti secoli nel corso dei quali ha conservato le sue varie forme dialettali.
Lo storico della lingua italiana, Bruno Migliorini si esprime così: “…c’è la lirica che si pone all’avanguardia della letteratura, e che crea un moto di entusiasmo, con conseguenze che dureranno per secoli. La spinta iniziale data dai poeti siciliani della curia sveva, i primi in Italia a servirsi del volgare per far poesia d’arte, sarà trasmessa a tanti altri; e tutti, non solo i pedissequi imitatori siculo-toscani, ma anche il Guinizelli, gli stilnovisti e in genere tutti quelli che scriveranno i versi, terranno conto in proporzione maggiore o minore, dei modelli siciliani, così che alcune peculiarità entreranno stabilmente nell’uso poetico italiano. Anche il sonetto, nato come composizione poetico-musicale, deve i suoi natali alla scuola siciliana e la paternità sembra essere di Jacopo Lentini, ‘notaro’ alla corte di Federico II, citato anche da Dante nella Divina Commedia al Canto XXIV del Purgatorio”.
Ed è proprio la figura del divino Dante che porta con sé l’identificazione (anche al di fuori del nostro Paese) della lingua italiana con la Toscana e con Firenze in particolare.
Si può dire, dunque, che l’affermazione definitiva del volgare letterario avviene lungo la via che porta dalla Scuola siciliana a Dante. E va detto che Scuola siciliana non significa solo introduzione di parole e forme dialettali siciliane, ma anche espressioni dialettali popolari campane che portarono alla nascita della ‘Villanella’ che divenne così famosa tra i compositori da essere adottata anche fuori dall’Italia col nome di “Villanella alla napolitana”. Una forma di canzone nata sì dal popolo ma assunta come forma d’arte anche negli ambienti colti. Nella sua semplicità, infatti, dona all’orecchio una sonorità espressiva già evidente nel testo poetico, prima ancora di ascoltarne la pienezza completata dal testo musicale
“Voccuccia de no pierzeco apreturo,
mussillo de na fica lattarola,
s’io t’aggio sola
dinto de quist’uorto,
nce pozza restà muorto
si tutte sse cerase non te furo”
Non esiste una documentazione esaustiva dei primi canti nati spontaneamente dal popolo perché di tradizione orale, ma è pervenuto un frammento di un canto attribuito alle lavandaie all’epoca di Federico II:
“Jesce sole, jesce sole
Nun te fa cchiù suspirà!
Siente maje che le figliole
Hanno tanto da prià?”
Questi pochi e semplici versi risuonano nel ritmo e nell’armonia della parola; le consonanti “sc” unite in “Jesce” formano una scia di dolce invocazione al sole e la parola “suspirà” che in dialetto campano si pronuncia ugualmente come fosse “suscpirà” produce un suono simile al sospiro che suona altrettanto come una invocazione. “Siente maje”: la “i” posta tra la “S” iniziale e la “e” dona al verbo dolcezza e “maje” al posto di “mai” ugualmente addolcisce il significato della parola stessa. Questo sarà uno dei punti cardine della futura Canzone napoletana.