L’accostamento delle opere di Giusy D’Arrigo e Giuseppe Rogolino – in mostra da Sabato 30 aprile 2016 presso l’open space del Museo Civico del Castello Ursino di Catania – produce sinergie inedite e interessanti dal punto di vista sia artistico che concettuale.
Apparentemente distanti nella poetica e nelle soluzioni formali, in realtà le opere dei due artisti dialogano in modo serrato e continuo.
Rogolino è un cronista-pittore: i suoi ritratti immortalano intensi volti di donne e di bambini, progetti di vita interrotti o devastati dalla guerra, con una carica di dolore disarmante in fondo agli occhi. Le visioni cosmiche e le metafore aeree di D’Arrigo parlano di indagini interiori, di interrogativi universali. Estremamente diverse sono anche le tecniche: Rogolino mescola l’immagine fotografica e l’intervento pittorico, su supporti metallici che ingaggiano con l’immagine un dialogo ineludibile, prepotente; le aggettanti, scultoree sinuosità di D’Arrigo sono costantemente contraddette dalla luminescenza dei materiali, dal loro rarefarsi e disgregarsi in sostanze pulviscolari, che fanno inciampare la luce, trattenendola dentro cromie pastose e ibride.
Eppure si tratta di un canto e di un controcanto che procedono insieme, rafforzandosi e illuminandosi vicendevolmente: quasi a suggerire che la mente umana non potrebbe concepire e accettare tutto quel dolore senza assumerlo in un’ottica più ampia, senza guardarlo sub specie aeternitatis.
Nassiriya, Ebron, Gaza, riconducono i visitatori a tetri scenari di guerra e di morte; sarebbe semplicemente condannato alla disperazione uno sguardo che non contemplasse, allo stesso tempo, anche l’amore e la solidarietà fra le persone e i popoli, unica via d’uscita possibile contro la violenza. Allora “connettersi” – connettere occhi e connettere mani – è la strada faticosa ma doverosa per superare la distruzione e sanare il dolore.
Una soluzione che può sembrare semplicistica ma che è maledettamente difficile.
Il progetto della stele Neth è allora il progetto di un’umanità “redenta” dalla “connessione” e laboriosa nella pace e nel dialogo. Non si tratta della connettività facile ed epidermica che la rete ci consegna ogni giorno in un’apparente illimitata libertà, ma è la connessione ben più ardua delle sofferenze e la loro capacità di disattivare la carica mortifera della Storia. Per disarmare le armi, allora, resta solo una rosa in mano a una donna, che ti guarda con uno sguardo attonito mentre ti consegna con semplicità disarmante un fiore bianco.
L’evento inaugurale dell’esposizione ha visto muoversi tra le opere diversi performers: la danza ha parlato di sofferenza, di mani sporche di sangue, di umanità violata; il canto ha riempito come un balsamo lo spazio, amplificando quei vortici di speranza e penetrando nelle loro profonde insenature. Fuori, uno scenario maestoso e quasi struggente ha fatto da cornice all’evento: l’incanto dei bastioni federiciani del Castello Ursino sotto un cielo primaverile popolato di rondini, il cratere dell’Etna sopra una cortina di nuvole.
Da questo luogo incantato iniziano oggi itinerari di pace.
Daniela Vasta