Oggi, Tutti sono compagni (cum panem) ma nessuno mangia il pane, quasi sempre abolito dal nutrizionista, figura costruita per rispondere ad un non bisogno di Chi ha deciso di ignorare il proprio passato.
Cosa conosce un nutrizionista della zolla, dell’acqua, del vento, della pioggia, del solco, dell’aratro, del seme, delle stagioni, della mietitura, dell’aia, dei silos, del mulino, della fatica e dell’amore umano che condiscono quel pane?

Non è togliendo il cibo che accompagnava la preghiera del Padre Nostro al mattino,  per il buongiorno ed alla sera, per la buona notte, che soddisfano quel milione di “falsi” celiaci del Nostro Paese (nel 2014 i celiaci erano,in Italia 172.197) spingendoLi ,con gioia delle multinazionali, verso il mais,divenuto alimento speciale ,dopo essere stato il mangime dei polli e della tavola dei Poveri,seminatore di pellagra. Ma dando conoscenza sulle trecento varietà di grano autoctono italiano,sulla tavola fino alla seconda guerra mondiale. Quel frumento che le Nostre bisnonne chiedevano cantando:”Noi vogliamo il frumento,noi vogliamo la mietitura”,per “amor dei Nostri Figli”.
Maurizio Grandi

 

“Amate il pane: cuore della casa, profumo della mensa, gioia del focolare. Rispettate il pane: sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrificio. Onorate il pane: gloria dei campi, fragranza della terra, festa della vita. Non sciupate il pane: ricchezza della patria, il più soave dono di Dio, il più santo premio alla fatica umana.”

Oggi che i nostri pasti abbondano di un superfluo che vorrebbe illuderci di un’imperitura abbondanza, può essere utile soffermarci a contemplare il pane, umile cibo generato dalla terra attorno al Mediterraneo, alimento così quotidiano sulle nostre tavole eppure rispetto al quale siamo invitati a chiederci se sappiamo davvero che cosa mangiamo. Abituati a consumare cibo in fretta, ovunque, anche in assenza di una tavola, ingoiamo alimenti come carburanti, sostenendo solo il nostro corpo animale e non l’intero essere. Il pane nel suo essere quotidiano dovrebbe ricordarci che mangiandolo compiamo un’azione che è molto di più del semplice nutrirci. Si è perso il senso e non si è più capaci di capire. Viene sostituito con prodotti la cui unica positività è una negatività, quella di non far ingrassare.

Il pane è nato nel III millennio a.C. In Egitto, in prossimità del Mediterraneo, dove nella coltivazione di diversi cereali eccelle il frumento. Con l’apparizione del pane si afferma la civiltà, la distinzione tra barbari e popoli civili , che conoscevano la coltivazione del grano, la cottura e viveva la dimensione della tavola con il pane preparato: nel III sec. d.C. i greci conoscevano 72 tipi di pani diversi. Cotto dagli assiri in otri di terracotta, dai greci sotto la cenere, dagli ebrei su pietre arroventate, il pane diventa il nutrimento del corpo e dello spirito, caricandosi di valori simbolici. Il dizionario recita :” alimento che si ottiene cuocendo al fuoco un impasto di farina, solitamente di frumento e acqua, condito con sale e fatto lievitare”. È molto di più. È simbolo della vita dura. Quando è abbondante o “fior di farina” è simbolo della gioia e della festa. È simbolo della condivisione, del lavoro di molti, della solidarietà, della compagnia autentica.

Nella vita contadina il pane sulla tavola richiamava immediatamente i campi di grano che si alternavano alle vigne: il loro giallo che si stagliava nel cielo sembrava dilatarsi fino a colorare le tele di Van Gogh. E in mezzo a tanto bagliore l’occhieggiare di fiordalisi e papaveri, memoria visiva della gratuità, come osservava il teologo Bonhoeffer, inno silenzioso all’amicizia che si intreccia all’amore coniugale. Il pane in tavola è un vero e proprio rito, soprattutto quando è costituito da un’unica, grande pagnotta per tutti i commensali. Deve essere posato diritto sulla tovaglia, disposto al centro o accanto a chi presiede la tavola, ne va spezzato solo quel tanto che si va a mangiare poi viene distribuito, facendo attenzione che non cada a terra, senza avanzarne dei pezzi. Le stesse briciole vengono raccolte alla fine del pasto e sparse sul davanzale della finestra a nutrire gli uccelli, soprattutto d’inverno, quando la neve togli allo scricciolo, al pettirosso, al passero la possibilità di trovare semi. Il pane, simbolo della natura e insieme della cultura, dell’agire dell’uomo in armonia con la natura. “L’uomo tra il pane dalla terra” narra con forza evocativa il salmo 104, a ricordare che il pane e lì, ma al contempo solo l’uomo sa trarlo fuori, sa chiamarlo alla vita. La terra, infatti, deve essere arata, poi sminuzzata dell’erpice, poi seminata in attesa della pioggia seconda e della neve che custodisce e protegge il lento è sicuro germinare: in inverno “sotto la pioggia fame, sotto la neve pane” recita un antico proverbio, erigendo il pane a nutrimento per eccellenza, unico antidoto alla fame. Infine, una volta che la terra accompagnata dal lavoro dell’uomo offre il grano nella spiga, ecco ancora la sapienza dell’uomo che non si accontenta di sgranocchiare dei chicchi magari abbrustoliti ma si preoccupa della miti Tura e della trebbiatura, raccolta e discernimento al tempo stesso, poi della molitura che predispone il grano a una nuova armonia con altri elementi della natura: la farina può così mescolarsi all’ acqua, al sale, al lievito. Pochi, semplicissimi elementi, ma costati con grande sapienza e fantasia, con pazienza e destrezza: quale varietà di forme e di consistenza già nella pasta, prima che la cottura aggiunga colore, profumo fragranza e inglobi nel greve impasto la leggerezza è il soffio spirituale dell’aria. Il pane cibo reale e pur simbolico capace di evocare una realtà che va al di là del nutrimento materiale e di suscitare domande sul senso di ciò che fa vivere. Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uomo, della natura e della cultura, il pane esprime il bisogno, ciò che davvero è necessario per vivere. Non a caso la parola pane indica cibo essenziale e non superfluo: quando diciamo che: “non c’è pane”, evochiamo fame e carestia, così come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame. Una corsa, quella cui assistiamo oggi, dalle sponde meridionali a quelle settentrionali del Mediterraneo, che segue il percorso compiuto proprio della cultura del pane quasi 5000 anni fa. Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità un meno a spezzarlo perché tutti ne possono avere, pane che, Secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo quando è spezzato e condiviso. E la civiltà del Mediterraneo a sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino. Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il dono accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino da gusto alla vita; il pane ritempra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino mi addolcisce le fatiche. Pane vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in cui due semplici alimenti, quanti volti appaiono dietro di loro. Il contadino è il mugnaio, il fornaio è il vignaiolo, e poi il battaglio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della miti Tura, il silenzio delle cantine e dei granai, il rumore della mola e il pigiare nei tini. E ora sono lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci le qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo E su come desideriamo che sia il nostro mondo. Forse anche per questo, come ha osservato Predrag Matvejevic, la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o simili. Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua. Anche se pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono Per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la “tavola del signore”. E così che mettono davanti addio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano. Anche così si illumina la capacità del pane di essere il simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità. Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare in vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane vino da adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. In tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto un altro, che è un altro ci offre a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario salvarci.

 

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