di Erica Poli e Maurizio Grandi

Si fa in fretta a dimenticare, oggi più che mai.

Le notizie viaggiano accelerate, nel web, sui social, cannibalizzate in poche ore da altre notizie, mentre il senso delle riflessioni non resta più attaccato, annegato nella contraddittorietà costante dei media, degli opinionisti, degli esperti.

Parole come etica, politica, sanità somigliano più all’esoscheletro vuoto di un mollusco che all’ossatura concettuale che dia struttura all’agire.

Chi cercava un centro di gravità permanente può ben rassegnarsi a ondeggiare in una vertigine costante.
Chi sognava qualcuno che non ruotasse mai intorno a sè, almeno un tu nell’Universo, in effetti se ne è andata presto, come Jole Santelli.
Forse un caso, ma entrambe erano calabresi, Mia e Jole, ed entrambe Pasionarie.

Ma ci si dimentica in fretta. Poche manciate di settimane e chi si ricorda più della prima donna presidente della Calabria?
Forse gli irretimenti esotici della politica d’oltreoceano avranno più presa.

In fondo si sa che l’erba del vicino è sempre più verde.
Invece, per una volta, un po’ di sano campanilismo pare irrinunciabile.

Perché è stata Italiana, Jole: fiera, fedele negli anni alla sua formazione politica, seriamente impegnata nel sociale, attenta alle esigenze delle sue sorelle donne, ma rispettata e paritetica agli uomini.
In una terra dove lo Stato aveva spesso ricoperto poco più che il ruolo di comparsa, Jole era così evidente, così netta, come i tratti del suo volto.
Una identità chiara, riconoscibile, e soprattutto il cuore.

Perché ci vorrebbe il cuore per fare il politico, come pure il medico. Assieme ad una manciata di filosofia e a un credo.
Il resto, solo pleonasmi da talkshow.
Una piccola eresia ai tempi della techne, piazzare il cuore nel bel mezzo della politica, a pulsare come la tarantella ballata a piedi nudi, insieme a chi festeggia il tuo incarico e alle cellule del tuo tumore che si replicano.

Il cuore che sta nella radice di cor-aggio, quello che a Jole non faceva paura.
Glielo aveva insegnato la malattia, e lo sapevano tutti.
Perché se sei una politica, non se fai la politica, non sei più tua, sei della tua gente e certe cose che ti riguardano, cosi dentro, così da vicino, così drammaticamente, finiscono persino in secondo piano.

Due minuti per chiamare l’oncologo, prima di accettare la candidatura a Presidente della Calabria, per sentirsi dire quel che poi non è stato, a dimostrazione che l’imprevisto è la chiave della vita, ma che significava per Jole l’assunzione della piena responsabilità della sua condizione.

Malattia che non è stata mai negata, ma dalla quale non si è mai fatta perseguitare.
Malattia che avendola liberata dalla paura, soleva dire che le aveva regalato la libertà, le aveva permesso di non rispettare più le convenienze.
Malattia che non le aveva fatto perdere di vista la prospettiva etica di chi sa che è per la comunità e come tale, il proprio individualismo è comunque meno importante del bene comune per cui si adopera.

Si faceva curare a Paola, e allo sguardo evidentemente attonito dell’intervistatore diceva: Sorpreso, vero? Da noi ci sono medici eccellenti. Le eccellenze in un mare di incompetenza, clientelismo, ignavia annegano come sassolini nello stagno. Lo so, tante cose non vanno. E io proverò a cambiare.”

Si dice che i migliori se ne vadano sempre per primi, forse è vero.
Ma se se ne vanno, dal senza tempo al quale fanno ritorno, perché vi appartengono, possono svolgere un altro ruolo, quello degli ispiratori.

È il 4 maggio 2020, sul finire del primo lockdown, in cui ancora una volta Jole aveva mostrato tanto il polso quanto l’affetto di una gestione magistrale dell’emergenza, al Santuario di San Francesco da Paola.
Jole apre il suo discorso con la voce strozzata, quella che aveva da qualche tempo, ma anche quella piena di una emozione che dichiara.
E poi la dichiarazione persino scandalosa per l’oggi della politica a cui siamo abituati: ha pregato San Francesco, quando ha assunto il ruolo di Presidente della Regione.
Perché per una responsabilità enorme, come quella, ci vuole l’aiuto divino, dell’eremita mistico che ha abitato i boschi e le grotte e amato le terre e le genti di quelle terre.
Parole come devozione, fede, mistica, dignità costellano il discorso.

Che San Francesco ci dia la vista per vedere quel che gli uomini di solito non vedono, ascoltare le parole di bisogno che di solito non ascoltiamo per il frastuono generale. (…)
Il racconto della grotta ci dice e ci racconta che in ogni momento buio c’è un filo di luce che abbiamo l’obbligo di vedere, il valore di tanti piccoli gesti che avevamo scordato. (…)
La libertà è un dono, che va preservato da ciascuno e mai dato per scontato, va conquistato.”

L’ultima immagine è per il mantello aperto del Santo, con la fantasia di poterci salire sopra ed esserne condotti.
Ora che evidentemente quel mantello le serve per volare, ricordarla significa ripercorrere un crinale tra politica e mistica, tra individuale e collettivo.

Siamo qui per noi stessi ma anche per gli altri, dove gli altri sono gli individui intorno a noi, le piante, gli animali, le rocce, i boschi, il cielo, l’acqua, le stelle…

C’è sempre un bivio tra sopravvivenza ed esistenza, che non può essere evitato.
La sopravvivenza non può inghiottire l’ideale, pena il disfacimento della struttura che sorregge la realtà, la società, il singolo.

 Quando una persona subisce un attacco violento alla propria vita, quando il dolore fisico si fa radicale e incomprimibile, allora quella persona ha due strade: deprimersi e farsi portare via dalla corrente, scegliere che il destino scelga per lei. Oppure attivarsi, concentrarsi e soprattutto ribellarsi”.
Jole Santelli

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