Metti una sera a cena  in una trattoria-osteria di provincia (dove la cultura materiale è più profonda) dove fa bella mostra un tavolone comune di legno (ricordo di Sole di Maleo), griffato dall’artista falegname del paese.

Certo le poltrone di Philippe Starci o i locali di Antonio Citterio o Lissoni sono progetti di culto, li adoro, ma il bello mi distrae dal cibo, dunque una goduria alla volta.
Il cibo è convivialità, i luoghi del cibo sono medium di scambio, di comunicazione possibile con più commensali nella stessa mensa piuttosto che in angoli solipsisti.

Ancora di più apprezzo i locali di stile giapponese che ti mettono di fronte al cuoco, soprattutto gli orientali sono uno spettacolo quando filettano e sezionano un pesce. Il mio posto ideale veste con tovaglie di lino grezzo (stupende quelle del corredo della sorella di Romano), calici giusti (ma senza griffe). Sono al bando le posate di design belle da vedersi ma difficili da impugnare (ci vuole un acrobata delle mani) : le forchette mi ricordano le saraghine, i cucchiai sono da lenti di ingrandimento, i coltelli da funambolo del tiro a segno. Adoro le posate d’antan con forma ancestrale, in mano pesanti.
Mi piace, una volta seduto, un saluto del patron con pochi salamelecchi ma non il “rosario” dei pezzi firmati, dei quadri appesi, dei soprammobili di Lenci o di Murano : li vedo senza assistenza e soprattutto mi infastidisce la recita del curriculum dello chef di turno (è stato una settimana da Ducasse, due giorni dai Roca, 24 ore al Noma).
Che bello sarebbe sentirsi dire:
”si è fatto un mazzo cosi a pelare le patate per anni…ma sa tutto sulle carni o sul pesce o sulle verdure, ha battuto i mercati all’alba”.

Poi eccoti al menu, in pace per una decina di minuti per chiedere delucidazioni su un piatto o su un ingrediente ma ormai è impossibile: si assiste alla recita della carta in canto gregoriano, guai interrompere, anzi si viene interrotti.
Purtroppo ormai l’elenco dei piatti è scritto in perfetto birignao, mai una chiosa sugli ingredienti da me preferiti.
E infine basta dopo ogni piatto “è piaciuto?”, meglio alla fine del pranzo un sorriso con un grazie.
Sine qua non

Davide Paolini
Il Sole 24 Ore
13 agosto 2017

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